“Mi chiamo Egidio da Viterbo e la parola è il mio dono”

“Mi chiamo Egidio da Viterbo e la parola è il mio dono”

Homepage - C’è una pagina della storia viterbese di cui non c’è più traccia in città. E’ la storia di Vittoria Colonna, del cardinale Reginald Pole e del circolo degli Spirituali tanto caro anche a Michelangelo. C'è un generale degli agostiniani, che fu maestro a quel monaco tedesco, tale Martin Lutero, che con le sue tesi diede vita nel 1517 alla Riforma protestante.

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C’è una pagina della storia viterbese di cui non c’è più traccia in città. E’ la storia di Vittoria Colonna, del cardinale Reginald Pole e del circolo degli Spirituali tanto caro anche a Michelangelo. C’è un generale degli agostiniani, che fu maestro a quel monaco tedesco, tale Martin Lutero, che con le sue tesi diede vita nel 1517 alla Riforma protestante. A Viterbo Reginald Pole, Vittoria Colonna ed Egidio da Viterbo diedero vita al Circolo degli Spirituali, che cercò di spingere la Chiesa di Roma a dialogare con i tedeschi. Prevalse la Controriforma, prevalsero i roghi dell’Inquisizione. Vinse Gambara.

Chi era Egidio da Viterbo? Nella giornata di chiusura dell’edizione2015 il festival di drammaturgia contemporanea Quartieri dell’Arte – che sta portando avanti un lavoro di riscoperta della storia della città di Viterbo, dei suoi grandi personaggi e dei luoghi carichi di significati e storie dimenticate – ha portato in scena un testo della giovane drammaturga del Centro Sperimentale di Cinematografia Flaminia Gressi dove Egidio da Viterbo si racconta.

 

Il testo su Egidio da Viterbo di Flaminia Gressi per QdA

Un uomo anziano, una lunga barba, vestito con una tunica, cammina su una montagna di libri distrutti. Le pagine sono bruciate, le copertine annerite. Poi si ferma, ne raccoglie uno da terra e lo accarezza con l’ amore di un padre.

Dovevo rimanere qui, dovevo proteggervi. I miei libri. A cui ho dedicato tutta una vita. La Bibbia, il talmud, il Corano, tante lingue che raccontano una sola storia. Mi chiamo Egidio e la parola è il mio dono. Nei primi anni del 1500 chiunque accorreva a Viterbo per udire la mia voce.

Imperatori, Papi, contadini, sapevo parlare a tutti e tutti ascoltavano. E’ grazie alla mia parola che Leone X mi concesse l’onore della porpora, è con la mia parola che sono divenuto padre degli Agostiniani. Ma non ho mai dimenticato chi mi aveva fatto questo dono. Una parola presa in prestito la mia: a Platone, a Demostene a Agostino. Io nano seduto sulle spalle dei giganti. Se Roma ha parlato anche con la mia voce lo devo ai loro scritti.

Volevo conoscerli, penetrarli, costudirli. E quando li avessi letti tutti Dio mi avrebbe toccato la mano. E con la mia le mani di tutti gli uomini. E allora non ci sarebbe più stata la miseria delle anime, la lussuria dei corpi, la smania di possedere. La parola di Agostino, che la stessa Chiesa di Roma sembrava averdimenticato, sarebbe diventata la legge spontanea del Creato. Saremmo stati uniti, in marcia verso la perfezione del sublime, guidati dal Papa e dalla sua Chiesa, liberi di ogni lordura.

Saremo stati insieme, in un unico abbraccio, e non ci sarebbero stati mai più scismi, né il fuoco dei lanzichenecchi. Roma non sarebbe più affogata nei mille idiomi di Babilonia ma tutti avremmo parlato la stessa unica lingua e ci saremmo capiti.

Ma ho dovuto scegliere. I mercenari di Carlo marciavano verso Roma, sempre più arrabbiati, sempre più affamati. Un esercito di ciechi guidati da un generale cieco. Frundsberg aveva promesso che avrebbe strangolato il Papa con le sue stesse mani se solo ne avesse avuto l’ occasione. Posso vederli, scendere dal Nord: un branco di dodicimila cani con la bava alla bocca e un solo obiettivo. Eccoli, avanzano verso l’ Eterno senza nulla da perdere, divorano la terra senza avvertire fatica, distruggono tutto ciò che incontrano senza provare pietà.

Avevi torto Ottaviano: non c’ è limes che possa contenerli. Passano i loro cavalli oltre confine, un fiato di morte che non permette fughe. Prima Brescia, poi Milano, poi Mantova, sempre più vicini. In un attimo la loro ferocia conquista il Po. Li vedo devastare la Santa lega di Cognac, ultima speranza di Clemente, e annientare il coraggio di Giovanni dalle Bandenere con un colpo solo di falconetto.

Ma quando furono sotto le mura di Roma, quando tra quest’ orda e il Papa, prigioniero nelle sue stanze, non rimase che una preghiera, quando tutto sembrò perduto, miei cari amici (guarda i libri), vi ho abbandonato. Ho usato le mie ricchezze per armare duemila mercenari che liberassero il pontefice e difendessero quello che restava della sua decadente, disperata, bellissima città. Stolto! Non era questo che Dio mi chiedeva. Lui aveva già chiesto il sacrificio ai 189 giovani svizzeri che morirono senza un lamento mentre il Papa, vestito da ortolano, attraversava il passetto di Castel Sant’ Angelo e tornava libero a guidare i cristiani. E dopo quello scempio, dopo quella devastazione insensata, dopo le grida e il dolore e i pianti, dopo tutto questo, per un momento, a Roma, tutti furono uguali. Italiani e asburgici, cattolici e protestanti, semplici contadini e soldati, santi e peccatori tutti morivano allo stesso modo, tutti venivano soffocati dal fumo nero della peste.

E la mia biblioteca, i miei figli, lasciati a loro stessi, conoscevano il destino del fuoco. Non era da me che Dio voleva eserciti. Sciocco, sentimentale Egidio: il tuo lavoro dovevi fare. Proteggere i libri! Ma io vi ho lasciati soli. E ora tutte le pagine, tutte le carte, tutte le lingue, tutto brucia. Fa orrore pensare che i soldati lanzichenecchi di un imperatore cattolico possano trucidare gli inermi, stuprare le vergini, saccheggiare le chiese. Ma bruciare i libri, tu, Carlo V, lo avresti mai creduto?

Ti ho visto, Lutero , ti ho incontrato. Ho conosciuto la tua parola. E tu la mia. Due figli di Agostino, divisi solo da un confine. Eri il nostro specchio, riflettevi i nostri errori, ma eravamo davvero troppo pochi ad avere il coraggio di guardare.

“Come il soldino nella cassa risuona, ecco che un’anima il purgatorio abbandona” Roba da affabulatori a caccia di indulgenze. Parole che disgustavano te e me Martino, e con noi l’ intera Ecclesia di Viterbo, che parlava una lingua universale. Eravamo sognatori, tu e io, combattevamo per una riforma che aveva il sapore di un ritorno a casa. Un ritorno alla povertà, alla purezza allo splendore che abbiamo dimenticato.

Come sarebbe stato facile capirci! Oggi non ci sarebbero protestanti e cattolici ma solo figli di Cristo. E forse anche l’Islam pregherebbe con noi l’ unico Dio. Ma noi che fummo educati alla Parola, noi no, non potemmo parlare. Parlarono invece le columbrine. E quegli uomini di fede più avvezzi al rogo che alla parola. Non ti ho conosciuto Gambara. Sono morto un anno prima che tu nascessi. Certo, se tu fossi stato un mio discepolo, saresti stato di quelli che si rivoltano contro il maestro. Avresti provato atrascinarmi alla sbarra, mi avresti umiliato davanti ai miei pari. La mia conoscenza dell’arabo e della Cabala, la mia amicizia con Marsilio e con Pico sarebbero state nelle tue mani armi formidabili per gettarmi nel gorgo dell’eresia. Ma forse non avresti osato. Partita difficile. Quanti di noi avresti condannato? Quanti avresti avuto il coraggio di guardare negli occhi mentre ci mandavi a bruciare? Nella mia ultima orazione ho chiesto alle folle di sognare.

Sognate un ponte, che elimini le distinzioni e congiunga noi e loro come fratelli, sognate un nuovo Concilio, che mostri al mondo la vacuità delle nostre differenze e a noi stessi quanto siamo simili, sognate una speranza, che permetta agli uomini di essere trasformati dalla religione e non la religione dagli uomini. Ma per mia fortuna sono morto troppo presto, e non ho potuto vedere quel muro di dogmatismo che uomini come te, Gambara, avete innalzato a Trento.

Ma adesso basta, non ho più parole. Voglio essere lasciato qui, con i miei libri, mia unica fuga, mio unico amore, mentre voi, soli, governate su un cumulo di ceneri.

egidio

Foto Fisioterapy Center

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