“Vengo a ringraziare i viterbesi che hanno combattuto l’inferno di Ebola”

“Vengo a ringraziare i viterbesi che hanno combattuto l’inferno di Ebola”

Homepage - Ha combattuto in prima linea, in Sierra Leone, contro l'infernale Ebola. Ho chiesto aiuto agli italiani e lo ha ricevuto, trasformandolo in vite umane strappate alla morte. Torna a Viterbo padre Maurizio Boa.

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Ha visto in faccia l’inferno di Ebola, l’ha combattuta con tutte le forze. Ha pregato e ha camminato e ha portato da mangiare alle persone, ha curato. Ora è tornato in Italia e sabato arriva a Viterbo per ringraziare. E’ questo padre Maurizio Boa, uomo dalla voce ruvida e dagli occhi capaci di raccontarti il mondo, l’uomo. A Viterbo in molti lo ricordano con grande affetto, perché per diversi anni è stato il parroco del Murialdo.

Torna questo sabato per ringraziare, come ha scritto sulla sua pagina facebook. Poche parole: “Vengo per ringraziare del sostanzioso aiuto ricevuto dagli amici, dalla diocesi e dalle parrocchie per combattere Ebola. Ho avvertito una comunione globale che mi ha dato il coraggio di agire. Vi racconterò, per ora vi dico con gratitudine che avete salvato vite umane”. 

A novembre del 2014, quando l’emergenza in Africa e in particolar modo in quella Sierra Leone questo sacerdote porta nel cuore da venti anni è arrivata a sfociare in emergenza umanitaria, lanciò un appello in Italia. Ha chiesto aiuti economici per salvare vite. Gli aiuti sono arrivati, “generosi”; come li definisce lui. Le vite sono state salvate e padre Maurizio promette ai viterbesi che gli racconterà molto.

Quell’appello dall’inferno arrivò in Italia sulle pagine della rivista Vanity Fair. Subito venne rilanciato dai giornali anche della Tuscia e il resto del lavoro lo hanno fatto i social. Quei social da cui Maurizio ha spesso mandato messaggi duri e crudi, come la verità che si stava consumando a quella latitudine sotto gli occhi troppo indifferenti del mondo.

”Da 17 anni vado a dire messa a Waterloo Camp, ora diventato Kissi Town”, iniziava così la lettera su Vanity Fair. ”E’ una sofferenza che ci vede impotenti – continuava lo scritto -. Dalle case chiuse chiedono cibo, acqua, aiuto. Chi darà loro da mangiare? Chi si occuperà dei bambini e dove? Venerdì sono andato con 20 sacchi di riso, 15 di cipolle, una tanica d’olio. Pensavo di aver portato qualcosa, disperatamente mi sono accorto di non aver portato niente. Oltre a me nessuno è venuto in aiuto di questa gente. Manca tutto e nessuno interviene. Tutti hanno una sacrosanta paura di avvicinarsi, paura di essere coinvolti. I bambini piangono e nessuno li consola. Sono sporchi, nessuno li lava. Hanno fame, voglia di sicurezza e affetto e non c’è nessuno per loro, solo Ebola e la sua volontà di morte”.

Parole che non sono cadute nel vuoto, che hanno dato frutto. Come nella parabola del buon seminatore, che tante volte questo prete del Murialdo ha ripetuto ai suoi ragazzi del catechismo. Qualcuno deve essersela ricordata. Ora il virus fa meno paura, l’emergenza è rientrata e tanti sono stati salvati grazie agli aiuti. 

Foto Fisioterapy Center

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