“Attilio Manca avrebbe operato il boss Bernardo Provenzano e per questo doveva morire”

“Attilio Manca avrebbe operato il boss Bernardo Provenzano e per questo doveva morire”

Homepage - VITERBO - Il giornale online “Il Quotidiano del Sud” nella sua rubrica “I diari della memoria” ripercorre la tragica storia dell’ urologo 34enne originario di Barcellona Pozzo di Gotto, trovato morto l’11 febbraio 2004 nella sua casa di Viterbo.

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VITERBO – Il giornale online “Il Quotidiano del Sud”nella sua rubrica “I diari della memoria”, a firma di Luciana De Luca, ripercorre la tragica storia dell’ urologo 34enne originario di Barcellona Pozzo di Gotto, trovato morto l’11 febbraio 2004 nella sua casa di Viterbo.

Riportiamo integralmente l’articolo che merita di essere letto attentamente.

“Depistaggi, insabbiamenti, pentiti non ritenuti attendibili o morti dopo aver parlato. La storia di Attilio Manca, il giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, trovato senza vita il 11 febbraio del 2004 nel suo appartamento di Viterbo, apparentemente ucciso da una overdose, è un vero e proprio mistero che, probabilmente, non si vuole risolvere.

Ma la sua famiglia, con la madre Angela Gentile in testa, vuole capire cosa è successo veramente ad Attilio, ucciso due volte dice, perché oltre ad avergli rubato la vita, hanno anche tentato di macchiare la sua immagine.

Dietro la tragica morte del brillante medico c’è l’ombra del boss Bernardo Provenzano e di un intervento chirurgico alla prostata eseguito nella clinica “La Ciotat” di Marsiglia al quale, probabilmente, avrebbe partecipato.

«Attilio era come si vede nelle foto: gioioso, solare, allegro, molto intelligente ed ironico – spiega Angela -. Quando veniva a casa e ci intratteneva con qualche barzelletta, iniziava a ridere già prima di finire di raccontarla. Mio figlio era un ragazzo profondamente sensibile e i suoi occhi rivelavano tutti i suoi sentimenti, erano di un’espressività unica oltre che essere bellissimi, cangianti: andavano dall’azzurro al verde e qualche volta diventavano persino grigi. Io sono sempre stata il suo punto di riferimento fin da piccolino, mi raccontava tutto, avevamo una grande complicità: gioivo dei suoi successi e mi rattristavo quando gli capitava qualcosa di negativo. Anche da adulto, quando tornava da Roma, la mattina diceva al padre di preparare il caffè mentre lui si metteva con me nel letto per poter chiacchierare. Attilio mi telefonava anche due volte al giorno e addirittura lo faceva anche durante l’intervallo tra un paziente e l’altro».

Angela ricorda di quando andava a parlare con gli insegnanti di Attilio e si trovava in fila con gli altri genitori. Lei si sentiva sempre in imbarazzo per ciò che si sentiva dire: il suo ragazzo, da alcuni professori, veniva indicato come il miglior studente avuto nella loro intera carriera scolastica e una di loro, con grande franchezza, ammise di avere quasi timore delle domande di Attilio.

“Lui aveva una grande sete di conoscenza e coltivava molti interessi – continua Angela -. La sua cultura spaziava dalla letteratura alla chimica, era bravo in tutto. A 18 anni entrò all’università Cattolica di Roma e dopo essersi laureato in medicina entro al Policlinico Gemelli di Roma per specializzarsi in Urologia e l’ultimo anno lo fece a Parigi dove apprese quella maledetta tecnica chirurgica della laparoscopia”.

Attilio, dopo la licenza liceale, era indeciso se frequentare la facoltà di ingegneria informatica o quella di medicina. Se non fosse riuscito ad entrare alla Cattolica, nei suoi piani c’era già l’idea di iscriversi all’università di Pisa.

Ma, senza alcuna raccomandazione, fu preso al Sacro Cuore. Anche l’Urologia non era mai stata nei suoi pensieri, lui avrebbe voluto fare il neurochirurgo, ma quando presentò la domanda per la specializzazione, c’erano già molti colleghi in lista di attesa e avrebbe dovuto aspettare almeno tre anni per entrare. In Urologia, invece, c’era subito la disponibilità sia a Padova che a Roma, e Attilio scelse la sede più vicina a casa.

 “Quando Attilio fece il primo intervento con la nuova tecnica chirurgica acquisita a Parigi – continua Angela – aveva appena trent’anni. Lui era felicissimo del fatto che aveva portato la laparoscopia in Italia. E lavorò al Gemelli fino a due anni prima di essere ucciso. Mio marito e io andavamo a trovarlo spesso a Roma e un pomeriggio mi disse che c’erano dei concorsi per entrare in ospedale sia a Viterbo che a Collegno, in provincia di Torino, e che li avrebbe fatti entrambi. Anche questa volta risultò vincitore nelle due sedi e dovendo scegliere, purtroppo, decise per quella di Viterbo”.

Angela parla di un tragico destino, di tanti pezzi che compongono un puzzle e che lentamente, sia per scelte fatte che per decisioni apparentemente banali, portano Attilio ad incrociare il destino di altre persone. Come quello di Bernardo Provenzano.

“Nessuno di noi aveva mai saputo niente di Provenzano – spiega Angela – ma ricordo perfettamente che nel mese di ottobre del 2003 Attilio ci chiamò da Marsiglia e a mio marito disse che doveva assistere a un intervento chirurgico. Il padre, allora, visto che si trovava in Francia, lo invitò a visitare la Costa Azzurra ma lui rispose che era stato impegnato a lungo e che stava già tornando a casa. Attilio in quel periodo veniva chiamato da molti ospedali d’Italia per interventi chirurgici e la notizia che si trovasse in Francia, in noi non destò nessuna sorpresa. Quella telefonata, però, dopo la sua morte, sparì dai tabulati telefonici. Un altro elemento importante è questo: Attilio per la ricorrenza dei morti, scendeva sempre in Sicilia. Quell’anno non lo fece perché ci riferì che era tornato da poco da Marsiglia ed era ancora stanco. Infatti, venne da noi soltanto il 5 novembre. Su questo passaggio, di cui siamo certi, è stato detto il falso da parte di chi avrebbe dovuto indagare. Mio figlio in quei giorni risultava assente dall’ospedale e non il contrario, come è stato affermato”.

Quando Attilio ritornò in Sicilia per le vacanze di Natale, ad Angela apparve strano, non usciva più di casa e preferiva passare le giornate a leggere nella sua stanza.

Quando la madre gli chiese come mai non trascorreva del tempo con i suoi amici abituali, lui le rispose che con quelle persone non si trovava più bene e che non vedeva l’ora di ritornare a Viterbo per stare con i suoi colleghi.

Angela vide del disagio in suo figlio ma lui non andò mai oltre queste affermazioni.

Nella tragica fine di Attilio Manca, secondo quanto riferito da alcuni pentiti, gioca un ruolo importante anche un parente del giovane medico in odore di mafia, che nonostante si sia dichiarato sempre estraneo ai fatti, sembra, invece, abbia giocato un ruolo determinante nel creare un contatto con il boss dei boss.

Le palesi contraddizioni in questo caso di presunto suicidio sono molte.

Il primo riguarda un elemento mai preso in considerazione dagli investigatori ma che per i colleghi di Attilio e i suoi genitori Angela e Gioacchino è determinante: Attilio era mancino eppure i buchi degli aghi si trovavano sul polso e nel gomito sinistri.

Inoltre, sulla siringa non fu mai trovata nessuna impronta e l’immagine post mortem del giovane chirurgo, evidenzia con grande chiarezza che fu sottoposto a un pesante pestaggio che gli procurò persino la deviazione del setto nasale.

“Io ed Attilio eravamo molto amici e ci frequentavamo anche fuori dall’ambiente ospedaliero – confermò il collega Massimo Fattorini – lui era mancino e nel suo lavoro utilizzava solo la sinistra, sia per scrivere che per svolgere ogni altra attività. A differenza di altri dottori mancini, che riescono ad utilizzare anche la destra, lui non poteva farlo perché era un mancino puro e quindi con la destra escludo che potesse fare dei movimenti precisi come quelli di farsi un’iniezione”.

“I primi ad essere avvisati della morte di nostro figlio furono Ugo Manca e suo padre – spiega Angela -. Ugo, in particolare, riferì di aver avuto la notizia dal dottor Rizzotto, il primario di mio figlio. È lecito chiedersi come faceva Rizzotto ad avere il numero di Ugo Manca. E come mai non chiamò noi che eravamo i suoi genitori? Quando vennero a dirci che Attilio era morto si presentarono già con le prenotazioni aeree fatte. Io ero stata finanche estromessa dal viaggio. Il giorno dopo riuscirono anche a convincerci a non vedere il corpo di Attilio perché era meglio ricordarlo da vivo. E io da 17 anni vivo con il rimorso di non aver fatto l’ultima carezza a mio figlio. Io da madre avrei capito tante cose guardando il suo corpo”.

Nella casa di Attilio Manca venne trovata una sola impronta, in bagno, ed era del cugino di Attilio, Ugo Manca, ospite pochi mesi prima.

Alla famiglia venne detto che il medico era morto per un aneurisma e che la deviazione del setto nasale era stata determinata dalla caduta improvvisa di Attilio sul telecomando che si trovava sul letto.

L’autopsia sul corpo di Attilio fu eseguita dalla dottoressa Ranalletta, moglie del primario dell’ospedale dove lavorava il giovane urologo e secondo la Commissione antimafia presieduta di Rosi Bindi, oltre ad essere lacunosa non avrebbe neanche verbalizzato i presenti.

Le indagini imboccarono immediatamente la pista del suicidio per overdose perseguita in tre richieste di archiviazione e magistrati non si allontanarono da quell’ipotesi neanche dopo le dichiarazioni di sei pentiti di mafia che rivelarono il viaggio a Marsiglia di Provenzano e di un urologo siciliano che lo avrebbe operato.

Un altro indizio strano riguarda il giorno prima della morte di Attilio. Il medico telefonò a sua madre per chiederle con urgenza, di far revisionare la sua motocicletta che si trovava a Barcellona, nella villa del mare.

Angela si stupì di questa richiesta visto che ancora mancavano molti mesi per le vacanze estive e solo a posteriori si chiese se il figlio avesse voluto darle qualche messaggio.

In effetti, tempo dopo si parlò di una presunta permanenza post operatoria di Provenzano a Tonnarella.

che questa telefonata pare sia scomparsa dai tabulati telefonici.

“Nell’ultimo giorno di vita di mio figlio c’è un vuoto di 28 ore – conclude Angela -. L’ultima telefonata l’avrebbe fatta alle 8 del 10 febbraio e poi di lui non si è più saputo nulla. Cosa ha fatto? Lo hanno portato in Sicilia per visitare Provenzano come qualcuno dice? Chissà se sapremo mai la verità. Ma finché sarò in vita non smetterò di cercarla”.

Nel febbraio scorso è stata assolta Monica Mileti, l’infermiera amica di Attilio Manca accusata di aver ceduto la dose fatale di eroina all’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto. Cade così, definitivamente, la falsa pista della droga e della menzogna.

La famiglia Manca da molti anni si batte per sapere la verità sulla morte del figlio. Accanto a loro gli avvocati Antonio Ingroia, Fabio Repici e tante associazioni e movimenti che chiedono venga fatta luce su questa pagina nera di storia italiana”.

Foto Fisioterapy Center

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