Un viterbese in Antartide – “Far atterrare un C-130 tra i ghiacci, non è cosa da poco”

Un viterbese in Antartide – “Far atterrare un C-130 tra i ghiacci, non è cosa da poco”

Homepage - Continuiamo a seguire la grande avventura del viterbese Bruno Pagnanelli in Antartide. Ecco come ci racconta un'altra giornata.

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Continuiamo a seguire la grande avventura del viterbese Bruno Pagnanelli in Antartide. Ecco come ci racconta un’altra giornata.

 

Ci siamo. Oggi è il grande giorno. Il C-130 Sudafricano, che trasporta personale e materiali in supporto alla spedizione italiana, ha il suo primo volo programmato verso MZS (Mario Zucchelli Station). Significa che oggi, se tutto andrà bene, altre 20 persone arriveranno a popolare la base e a limitare il nostro isolamento.

Sono un po’ agitato. Credo sia normale. Far atterrare un C-130 non è cosa da poco, non per me che sono alla radio, ma per tutto il supporto logistico che serve e per tutta la fatica che hanno fatto i miei compagni di avventura per permettere che ciò avvenga. Perché questo camioncino d’acciaio e di alluminio con relativo carico pagante, partirà dalla Nuova Zelanda e atterrerà su una pista di ghiaccio che abbiamo creato, noi, sul mare.

In pratica 50 tonnellate di tecnologia e di umanità che, dopo 7 ore di volo sui mari più tempestosi e più freddi della terra, atterreranno su una pista di 3 chilometri di ghiaccio costruita sulle onde immobilizzate dal freddo. Dimostrando con ciò, a quei venti cuori isolati da 5 giorni, che quello che hanno preparato è comodo e altamente funzionale allo scopo. Insomma una vera attestazione di fiducia al nostro lavoro.

Il problema è che… l’Antartide è molto poco cooperativo.
Perché tu puoi anche programmare mille mila ipotesi, puoi anche far smadonnare Mario sulla pista, avanti e indietro per 3 giorni sul gatto, puoi anche trapanare buchi per piazzare bandierine, mettere bidoni, cartelli distanziometrici, paline nella zona del parcheggio che tanto, lui, il continente, quella cose enorme piazzata in fondo al mondo e colorata di bianco, poi potrebbe anche non essere d’accordo.
Infatti.

Suona la sveglia. Ci siamo. Subito un caffé gigante dentro una tazza che sembra uno scaldabagno. Si sente un rumore strano sulla struttura di ferro della stazione. Come un rumore di ferro che sbatte. Guardo la finestra da dentro la camera e si vede neve che viaggia sospesa nell’aria trasportata da un vento micidiale. Ah, dico, iniziamo bene.
Picchi di 40 nodi di vento in base e circa 60 sulle stazioni intorno alla pista. Si vedono stracci di neve che vagano serpeggiando su quello che dovrebbe essere l’aeroporto.

Già ieri sera Christian, il meteoprevisore, si era messo d’accordo con il capitano sudafricano del C-130 per un ritardo. I modelli matematici dicono che il vento potrebbe calare e invece delle 7 del mattino hanno deciso di partire per le 13.

Alle 12 passiamo l’ultimo briefing meteo via telefono. Il vento non cala, ma Christian, con una calma serafica è accanto a me e parla con il pilota in Nuova Zelanda. Parla tranquillo, misurato, scandisce bene le parole, riporta segnali di diminuzione (anche se in base il vento fa ancora urlare la struttura). Sento che dice: “Ok, so for You is Go!”…

Partono? Io ho gli occhi pallati come un lemure, vedo Christian tranquillo mentre io sono un po’ sulle spine. Inizio a sentire la pressione. Sto già pensando ai piani di backup, agli aeroporti alternati, al punto di non ritorno, sto già facendo calcoli sugli stimati per capire quando dovrò dire che è il caso di non rischiare. Mi fido di Christian ma la situazione mi spaventa. Lui ha controllato tutta la notte, cartine, mappe, isoallobare, punti di rugiada, tendenze, modelli americani, europei, li ha confrontati, studiati, simulati. Si vede che è stanchissimo ma è molto, molto tranquillo.

Alle 13 arriva il messaggio. Sono partiti.
Fuori il vento sembra esattamente come prima. Abbiamo 6 ore e 30 di tempo, cerco di trovare la fiducia in qualcosa che non conosco (la meteorologia) e mi faccio cullare dalla faccia di Christian (che conosco) sempre più serafico. Ma quello che vedo all’esame finestra è in controtendenza. Guardo sopra, la catena delle Northern Foohills è ancora sbeccata da fiumi sottili di neve, sbuffi incessanti di catabatico dal plateau.

Dopo 20 minuti il vento cessa. Gradualmente, inesorabilmente, quasi gigioneggiando con la mia tensione.
Ha smesso. Come se non ci fosse mai stato. Il cielo è azzurro, più azzurro del solito, sembra anche più grande e forse lo è davvero. Ogni rumore mi fa girare a guardare gli anemometri. Niente. Non si muove più nulla.
In questi cinque minuti in cui questo miracolo avviene non faccio altro che guardare in giro a cercare marker che mi confortino, che confermino ciò che vedo. E’ vero, sta succedendo.

Traccio sui monitor la posizione dell’aereo. Passa il 60° parallelo Sud, passa il punto di non ritorno, scende ancora, il simbolo dell’aereo entra sul profilo bianco alla sinistra di cape Adare, un mignolo di terra coperto di ghiaccio in mezzo al Pacifico, l’ingresso del continente bianco. La radio dopo poco gracchia: “Terranova this is SAFAIR 530!”
Prendo il microfono, sono emozionato. Gli dico che non è mai stato così bello sentire la loro voce, e lui, il Capitano Tony Evans (una vecchia conoscenza della passata spedizione), ride di gusto e ci dice, “the weather is good, we’re coming!”

Gli dico che siamo pronti,sonnecchiando, covando come al solito, da millenni. Scorgo un puntino scuro nel cielo limpido, lo vedo! Alle 19:50 tocca morbido sul mare, un mare solido di freddo, l’esempio della più grande mutazione stagionale dell’intero pianeta. Dicoal microfono “safe on ice at five zero, five zero.. “

Vedo tutti quelli che c’erano in base che si avvinghiano con ogni mezzo, pulmino, carrello verso quell’aereo, come formiche su un chicco di grano. So cosa provano quelli che scendono. So cosa provano quelli che li ricevono. So cosa provano quelli che scaricano, che riforniscono, che faticano, che guidano, che aspettano nei mezzi in fondo alla pista. Lo so.

Guardo Christian, gli dico: “vecchio mio, gran bella prova.. “ di rimando mi spiega tecnicamente perché è successo. E’ cosi contento che non mette filtri fra cervello e lingua e alza talmente tanto il livello della comunicazione che anche per me, che ci sono dentro da trent’anni, è troppo. Sorrido anche se non ho capito nulla dei motivi che mi ha citato.
Gli do una pacca sulla spalla, ci abbracciamo.

E questo è solo l’inizio..

Foto Fisioterapy Center

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