Il Sestante – “Piccolo omaggio ai “giocattoli”… perché a volte non c’è niente di più essenziale dell’inessenziale”

Il Sestante – “Piccolo omaggio ai “giocattoli”… perché a volte non c’è niente di più essenziale dell’inessenziale”

Homepage - Nelle scorse settimane mi è piaciuto parlare soprattutto di attualità, ma questo martedì vorrei fare insieme a voi un'esperienza di segno diverso: quella di tuffarci in un mondo senza tempo, materiale eppure per certi versi irreale, che tutti abbiamo esplorato in una stagione ormai remota. Mi riferisco all'universo immaginifico dei "giocattoli", questi oggetti così apparentemente banali e infantili che, pure, sono stati via via considerati essenziali per la crescita di ciascuno di noi (e penso sia a grandi pedagogisti che a personaggi letterari come il nonno del piccolo lord, quell'arcigno Conte di Dorincourt secondo cui i giochi erano importanti perché volti a preparare "un ragazzo per quel grande gioco che è la vita").

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Nelle scorse settimane mi è piaciuto parlare soprattutto di attualità, ma questo martedì vorrei fare insieme a voi un’esperienza di segno diverso: quella di tuffarci in un mondo senza tempo, materiale eppure per certi versi irreale, che tutti abbiamo esplorato in una stagione ormai remota. Mi riferisco all’universo immaginifico dei “giocattoli”, questi oggetti così apparentemente banali e infantili che, pure, sono stati via via considerati essenziali per la crescita di ciascuno di noi (e penso sia a grandi pedagogisti che a personaggi letterari come il nonno del piccolo lord, quell’arcigno Conte di Dorincourt secondo cui i giochi erano importanti perché volti a preparare “un ragazzo per quel grande gioco che è la vita”).

Del resto, credo che se ci concedessimo una pausa dagli infiniti problemi del quotidiano della nostra vita di “adulti”, ciascuno di noi saprebbe ripescare dal famoso cassetto della memoria qualche bella esperienza che ha avuto a che fare con quel mondo, e magari, scendendo in uno scantinato, riaprendo uno scatolone impolverato e riprendendo tra le mani un “amico” di plastica o di pezza di quegli anni, potrebbe stupirsi nel sentirsi scorrere dentro sensazioni che neppure ricordava di aver provato quando i problemi non esistevano o, se c’erano, erano filtrati e deformati dalla mente di un bambino.

Tra l’altro, a riprova della potenza evocativa di questa esperienza, mi viene in mente che sono esistiti ed esistono grandi artisti che proprio su di essa hanno costruito parte della loro poetica. Ad esempio, pensate al soldatino-schiaccianoci di Ciajkovskij, ma anche a tutti quei film di Spielberg in cui, per riportarci alla dimensione fantastica dell’infanzia, il regista metteva tra le mani dei suoi protagonisti proprio dei giocattoli, elevandoli a simbolo di innocenza in un mondo doloroso e ingiusto, sia che si trattasse di “Teddy l’orsetto” afferrato dal compianto Robin Williams/Peter Pan (che ci riportava a Neverland “da grandi”), sia dell’aeroplanino stretto dal piccolo Jim tra le macerie di quell’ “impero del sole” ripreso dal romanzo autobiografico di J.C. Ballard. Sì, perché quei giochi sono un po’ il non-luogo, lo spazio fuori dal tempo, in cui lasciamo un segno di come eravamo, forse proprio per poterci tornare e, così, ritrovare la nostra parte più autentica tutte le volte in cui il peso degli anni e le tante avversità della vita adulta, con i loro molti falsi idoli, rischierebbero di spingerci sulla via della deumanizzazione.

A tal proposito, mi torna alla mente anche un episodio di “Ai confini della realtà” che ho scoperto qualche anno fa. Raccontava la storia di un costruttore di giocattoli, Lewis Bookman, che tutti i giorni vagava col suo banchetto ambulante per vendere i suoi balocchi, fino al ritorno a casa la sera, dove chiudeva così il cerchio quotidiano di una vita umile ma dignitosa e, soprattutto, generosa e affatto vuota perché, sebbene priva del tepore di una famiglia, era nutrita dal calore dei bambini del suo quartiere. Amava infatti renderli felici donando loro, un giorno all’uno un giorno all’altro, uno dei suoi giocattoli quando, al suo rientro, venivano ad aspettarlo davanti alla porta di casa. Tuttavia, una sera, venne a trovarlo la Morte perché era giunta la sua ora. Però, per fortuna dell’anziano costruttore, mentre la Morte si aggirava in quel piccolo laboratorio osservando tutti quei giocattoli, rimase in qualche modo toccata da quel personaggio, tanto da prendersi la libertà di concedergli una “proroga” per il tempo necessario a realizzare un ultimo ardente desiderio di quell’uomo buono: preparare un discorso in grado di fare del bene ai bambini che tanto amava, un discorso in grado di arrivare fino agli “Angeli”.

Ora, va detto che Lewis, un po’ da briccone, credeva in questo modo di aver giocato la Morte, ricevendo un tempo illimitato di fronte a sé, perché adesso, si disse tra sé, mai avrebbe composto quelle parole. Sennonché, ironia della sorte, quel discorso lo avrebbe invece tenuto di lì a poco, quando, rincontrando proprio la Morte che veniva a prendere una ragazzina malata del suo quartiere con l’ “ordine” di portarla nell’aldilà entro mezzanotte, Lewis decise di intrattenere lei, la Morte, imbastendo un discorso che la distraesse fino ad oltre i 12 rintocchi della mezzanotte. Un discorso anomalo, non certo una grande ode poetica, ma teso a confondere, per far prendere lui al posto della piccola. Ed ebbe successo. La Morte ne venne distratta fino ad oltre la mezzanotte e così la bambina fu salva. Quindi, col sorriso, l’anziano giocattolaio poté raggiungere quegli Angeli che ben lo avevano udito e, adesso, lo attendevano in mezzo a loro.

È strano. Sarà stato il tempo grigio in cui guardai quell’episodio, un giorno di fine autunno in cui stavano già montando gli addobbi di Natale, però, la storia di Lewis il giocattolaio mi trasmise una specie di “nostalgia”,riportandomi agli anni in cui, tra le mie mani di bambino, un giocattolo sembrava brillare di una luce sua propria. Forse perché, un po’ come sosteneva uno dei personaggi di De Crescenzo in “Storia della filosofia greca”, Peppino Russo, le cose un’anima ce l’hanno e, per lo più, gliela diamo noi. Così, per un giocattolo, sarà il bambino che lo ha posseduto ad infonderci una scintilla di sé e, perché no?, magari questa si aggiungerà a quella già impressa nel balocco dal suo costruttore che, probabilmente, per aver scelto un simile mestiere, deve aver serbato il gusto del magico tipico dell’età della spensieratezza, quella abitata dal fanciullino di Pascoli.
È proprio questo che mi ha sempre colpito dei giocattoli rispetto a tutti gli altri oggetti: l’unione che in essi si viene a creare tra animi buoni e, in qualche modo, rimasti puri. Certo, c’è anche il bambino un po’ “mostro” che li “intristisce” maltrattandoli, come il Sid Phillips di “Toy Story”, o il costruttore che li deumanizza ve(n)dendoli solo come un’opportunità di guadagno (la narrativa e la vita vera sono piene di questi “cattivi”), ma, al di là di quest’ultimo, ci sono anche gli artigiani “costruttori di giocattoli” dallo spirito creatore. Creatore di bellezza e di speranza, tanto da far vacillare di fronte ad essi la Morte stessa, come nel caso di Lewis. Ma, tra tutti questi straordinari personaggi, il mio preferito è sempre stato Geppetto e, in particolare, quello interpretato da Nino Manfredi, tuttora insuperato per umanità e per capacità di rappresentare come la forza di un bisogno di affetto, se usata per alimentare un desiderio recondito mai abbandonato anziché le fiamme insincere dell’autocommiserazione, possa vincere ogni solitudine ed evocare quella “magia”, incarnata dalla Fata Turchina, in grado di trasformare ciò che la propria arte ha creato, come un piccolo burattino di legno, in luminosa forza vitale, come quella dell’abbraccio di un bambino vero al suo “babbo”.

Questo mi andava di raccontare oggi: di quanto possano diventare “essenziali” proprio quei ninnoli, come i balocchi, che a volte tendiamo a considerare “inessenziali”. Nella speranza che, quando terrete in mano un giocattolo, ormai (suppongo) per donarlo ad un figlio o a un nipotino, oppure quando racconterete a questi ultimi una favola o una fiaba della buonanotte, consideriate che, per un bimbo, quegli oggetti sono più che semplici oggetti e quelle storie sono più che semplici parole. Li accompagneranno sempre, insieme al ricordo di voi che eravate lì con loro mentre ancora sapevano guardare il mondo con quegli occhi scintillanti e ascoltarlo con quelle orecchie curiose.

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