Antonello Ricci: “Viterbo deve imparare a raccontarsi”

Antonello Ricci: “Viterbo deve imparare a raccontarsi”

Homepage - VITERBO - La domanda che ci siamo fatti è: che cosa stiamo promuovendo? La classe dirigente politica ha chiaro cosa significa davvero accreditare un territorio presso il mercato dei flussi turistici? Tutte domande che ci hanno portato a volere incontrare chi di narrazione del territorio si occupa da decenni: il professore e narratore Antonello Ricci.

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VITERBO – Il capoluogo della Tuscia è fermo al palo. Ogni anno, le varie amministrazioni, decidono investimenti per promuovere il territorio. La domanda che ci siamo fatti è: che cosa stiamo promuovendo? La classe dirigente politica ha chiaro cosa significa davvero accreditare un territorio presso il mercato dei flussi turistici? Tutte domande che ci hanno portato a volere incontrare chi di narrazione del territorio si occupa da decenni: il professore e narratore Antonello Ricci.

Che città è Viterbo dal punto di vista stretto della narrazione?

“Una città difficile, un territorio difficile. Tanto ricco di storie e potenzialità che però restano in latenza. Così l’ho conosciuto, crescendo così lo ritrovo negli anni. La grande disparità mi pare questa: tra le grandi potenzialità e l’assenza di qualcosa che abbia agglutinato nel tempo e rafforzato il suo modo di raccontarsi. Tanto fuori quanto dentro.

Un racconto si rivolge sempre sia all’esterno: dove presenta il tuo territorio; sia all’interno: al fuoco della comunità stessa. Questo è il grande punto debole, la mancanza di un racconto.

Vale il vecchio motto “saperla lunga, saperla raccontare”. Ancora oggi pensiamo che le bellezze paesistiche e storiche che abbiamo da sé possono raccontarsi. Non è così, serve una strategia, serve una cabina di regia. Bisogna avere una mentalità. Questa è la cosa difficile da cambiare. Se non si vede questo si rimane fermi”.

Il capoluogo del Viterbese è dunque un territorio che galleggia senza prendere alcuna direzione?

“Beh, anche i fiori d’acqua hanno loro forza. A me sembra che quello che manca è la capacità di riconoscerci in un fondo comune. C’è anche tanta passione. Tanti movimenti, gruppi, pagine Facebook e amore per il territorio. Tutto questo però non riesce a fare rete. Rimane un po’ liquido e quindi sfuggente”

Che analisi farebbe della narrazione di Viterbo nei secoli?

“Ci sono tre livelli. Il primo è il Medioevo. Avevamo delle leggende che hanno costituito il sentimento dell’appartenenza. La Bella Galiana e Frisigello sembrano giochi e invece erano fondamenta. Dopodiché Viterbo, che ha toccato vette di gloria, città papale per un 25 anni, è uscito dai piani nobili della storia ed è finitp in magazzino.

Abbiamo dovuto fare i conti con questo e a un certo punto è arrivato un fratonsolo domenicano, Annio da Viterbo, famoso in tutta Europa. Ha provato a raccontare un’altra identità. L’abbiamo dipinta sui nostri muri nobili della città: in sala regia e del consiglio.

Erano favole enormi le sue: da Noè agli antichi egizi; che dovevano un po’ rendere conto rispetto al nostro declino e tramonto.

Dopodiché è arrivata santa Rosa, di cui ho profondo rispetto. Da lì non ci siamo più mossi e oggi abbiamo anche difficoltà a promuovere a livello di immagine pubblica la festa di santa Rosa. Mi pare che questa sia una città in cui la frizione slitta. E’ una città che ancora oggi non riesce a raccontarsi”.

Se un sindaco, un’amministrazione comunale, ti commissionasse la costruzione di una strategia narrativa che cosa faresti?

“Partirei dal mettere insieme le tante intelligenze che lavorano. Fare rete, squadra ma anche scuola. Riflettere sul metodo e sulla prospettiva. L’esperienza di Viterbo Capitale della Cultura insegna, abbiamo dato una pessima immagine. Nonostante la buona volontà dei singoli, siamo molto indietro.

L’istituzione deve provare a pensare queste cose. Ogni volta che parlo con qualche stimabile assessore o consigliere, di ogni schieramento politico, manca un approccio consapevole al tema. Ancora oggi si pensa che la gente farà a pugni per venire a vedere la manina di Del Piombo perché c’è dietro Michelangelo. Queste sono cose importanti ma servono strategie”.

Cosa va fatto nell’attesa che si schiudano le condizioni per un lavoro vero in questo campo?

“Seminare, non sai mai quello che accadrà”.

Foto Fisioterapy Center

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