Accattonaggio, Crescenzi: “L’unica legalità sostenibile è quella della solidarietà”

Accattonaggio, Crescenzi: “L’unica legalità sostenibile è quella della solidarietà”

Homepage - L'accattonaggio nelle strade viterbesi è diventato in questi giorni un tema di stretta attualità. Le forze d'opposizione spingono sull'acceleratore per intervenire con un'apposita ordinanza. Sulla questione riportiamo un interessante parere inviato in redazione da David Crescenzi.

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L’accattonaggio nelle strade viterbesi è diventato in questi giorni un tema di stretta attualità. Le forze d’opposizione spingono sull’acceleratore per intervenire con un’apposita ordinanza. Sulla questione riportiamo un interessante parere inviato in redazione da David Crescenzi. 

 

 

In questi giorni, come molti, ho fatto da spettatore al dibattito pubblico sull’accattonaggio nel nostro territorio. Non voglio girarci intorno: il fenomeno è aumentato e non faccio fatica ad ammettere che, talvolta, mi suscita fastidio, specie quando nell’arco di poche decine di metri vengo letteralmente assalito da un gran numero di questuanti. Dal Sacrario a S. Pellegrino, un giorno, me ne sono capitati cinque. Non credo sia possibile, e nemmeno giusto, fare sempre l’elemosina, almeno nei termini che spiegherò nel prosieguo. Inoltre, mi pare fuori dalla realtà, anche per chi non la vede come me, che sia davvero possibile rispondere sempre di sì al questuante di turno. Senza contare che mi sembra azzardato, sempre da parte di coloro che dicono di non provare “mai” fastidio per i questuanti, parlare di una società dell’intolleranza solo perché a volte si reagisce seccati all’ennesima richiesta di denaro per strada.

Chi tiene davvero a queste persone deve primariamente augurarsi di non vederle più a chiedere soldi, ma, si badi, non perché scacciate e mandate a elemosinare altrove (come si augurano certi fautori del “law and order”), bensì, perché affrancate da questa condizione di bisogno.

Qualche giorno fa, esasperato da alcune situazioni particolari che mi avevano amareggiato e deluso, in un post su facebook evocai un a visione calvinista scrivendo che forse esistono poveri meritevoli e immeritevoli. A freddo, dico che avevo sbagliato. Purtroppo, ci sono situazioni in cui lo stato di bisogno diventa strutturale e le barriere sociali per il suo superamento sembrano invalicabili a chi precipita nella povertà. Tuttavia, credo fermamente che l’aiuto, in questi casi, non possa venire dall’elemosina continua ma da interventi competenti di istituzioni e organizzazioni solidaristiche (capaci ad es. di inserire il bisognoso in un percorso lavorativo). Pertanto, se anche non dovevo chiamare certe persone “poveri immeritevoli”, non mi pento affatto di aver detto loro che, da me, non avrebbero avuto più un centesimo e che, da quel momento in poi, si sarebbero dovute rivolgere, per le loro necessità, a organismi più competenti dell’uomo della strada. Penso che sia la coscienza a guidarci in questi casi: la mia cominciava a sentirsi sempre più a disagio nel dare denaro a chi lo avrebbe bruciato cinque minuti dopo e l’indomani, semplicemente, con la stessa faccia afflitta, me lo avrebbe richiesto. Guardate che è la stessa coscienza che poi spinge a dare quel denaro a qualche altro questuante dopo solo pochi metri.

Un aiuto, temporaneo e che infondo non costa niente, non si nega. Il problema nasce quando quell’aiuto rischia di diventare abituale fino a scemare in una sorta di assistenzialismo sterile e controproducente (perché consolida quella situazione di povertà ed emarginazione).

Chi oggi dà patenti di inciviltà a quelli che negano l’elemosina consideri che l’inciviltà vera sta nel fatto che l’elemosina si renda ancora necessaria. Poi, si rifletta su un altro fatto: non tutti possono privarsi di denaro, fosse pure poco, per donarlo in giro, anche se a chiederlo sono dei bisognosi. Non c’è necessità di lanciare anatemi indistinti, ma solo di trattare questo tema con delicatezza, anche quando ci si rivolge a chi non è in animo di dare. Non ci si può scagliare contro i singoli quando i problemi raggiungono una dimensione che richiede un intervento della collettività tutta: quello è il momento in cui il dito va puntato contro le istituzioni.

D’altra parte, le parole che precedono non vogliono rappresentare un’assoluzione generale per tutti coloro che negano un aiuto al prossimo. Infatti, esistono casi di persone che non danno perché “disprezzano” e provano “disgusto” per i bisognosi, specie se stranieri. Tra costoro, come arma contro i fenomeni di accattonaggio, è particolarmente frequente il ricorso all’argomento della “legalità”, che però diviene in realtà soltanto una scusa per ammantare di una qualche giustificazione la primitiva dottrina del disprezzo, che è poi quella che effettivamente li motiva. Questa gente, al di là degli sterili richiami al rispetto delle regole e al decoro urbano, gli ultimi non li vuole tra i piedi e basta. Intendiamoci, non tutti quelli che invocano la legalità sono dei bruti di questa risma, e chi cerca una soluzione, fosse anche tramite strumenti come le ordinanze cosiddette anti-accattonaggio, non è per questo un disprezzatore del prossimo in difficoltà. Anzi, può essere un alleato: infatti, se a motivare chi chiede interventi di questo tipo è la volontà di risolvere il problema dei questuanti e non certo il disgusto, occorre coinvolgerlo in un dibattito teso a far emergere come “il problema” si risolve non cacciando i questuanti, ma aiutandoli a venir fuori dall’abisso. In qualche caso più grave, come si è da più parti osservato in questi giorni, si tratterà di spingere le autorità competenti a indagare sull’esistenza di eventuali associazioni di racket che sfruttano i bisognosi costringendoli a elemosinare; in altri, si tratterà di attivare i servizi sociali per andare a conoscere, anche per strada se necessario, i vari bisognosi e apprendere direttamente da loro le rispettive storie, per meglio comprendere come aiutarli in modo strutturato e non improvvisato (come avverrebbe se si continuasse con l’elemosina). Che poi, così, tanti capirebbero che a chiedere soldi in giro non sono i richiedenti asilo ma altri immigrati (spesso neppure irregolari o comunque cittadini comunitari) nonché italiani in difficoltà. Tra l’altro, in un mondo ideale (ma che mi piace pensare verosimile), questo afflato solidaristico potrebbe divenire uno sforzo corale di tutti: associazioni e istituzioni potrebbero incontrarsi e dar vita a una campagna di reciproca collaborazione teso ad andare a recuperare, direttamente sul campo, i diversi bisognosi. Dal canto loro, i singoli cittadini, anziché liquidare il questuante a male parole o con due spiccioli, potrebbero essere sensibilizzati, sia nel senso di informare i bisognosi che esistono strutture preposte cui rivolgersi, sia nel senso di chiedergli direttamente di cosa hanno bisogno, e magari prendere il loro contatto, ad es. per sentire se un amico può aver bisogno del loro apporto lavorativo (ma dico tanto per dire). Infatti, visto che in questi giorni si è molto parlato anche di empatia, la circostanza di interfacciarsi viso a viso potrebbe rappresentare un momento di crescita nella misura in cui “costringerebbe” a parlare con queste persone, in quanto molto spesso anche il fatto di dare l’elemosina rappresenta un momento assolutamente impersonale in cui l’atto del dare, in realtà, è un modo freddo e sbrigativo per togliersi di mezzo una seccatura, perpetuando così la barriera sociale già esistente tra chi chiede e chi riceve.

Non si dica che “non si può fare”. Non si dica “non è nostra competenza”. Qui si parla di spendersi per un tipo di legalità che non è semplicemente (e semplicisticamente) quella della sicurezza tramite il pugno di ferro (oltre tutto difficilmente realizzabile con strumenti di dubbia legittimità come le ordinanze sindacali anti-accattonaggio che neppure rappresenterebbero un deterrente efficace: per i casi più gravi, esistono già i reati e, se questi non hanno scoraggiato determinate condotte, non lo farà certo una multa di qualche decina di euro che nemmeno verrà mai riscossa da un non abbiente). Qui si parla della legalità intesa come riconduzione al mondo del rispetto delle regole tramite una profonda opera di socializzazione in favore di chi, al momento, della società sta ai margini: è il significato più alto di legalità, quella che affonda le sue ragioni nei principi costituzionali di uguaglianza e di rispetto della persona umana, che si impongono a tutti i livelli di governo, statali e comunali. Una legalità che, in aggiunta, fa eco al motto terenziano «homo sum, humani nihil a me alienum puto» («sono un uomo e niente di ciò che è umano mi è estraneo»): un imperativo “umanistico”, questo, che ci ricorda come la nostra identità culturale, molto più che in un qualche egoismo salvifico, riposi sull’interessamento alla condizione dell’altro, del prossimo, specie quando in difficoltà. Tra l’altro, non è vanagloria invocare questi principi e valori dato che, pragmaticamente parlando, la strada solidaristica è la sola percorribile per raggiungere stabilmente la serenità sociale e, diciamolo, anche la sicurezza per tutti. Nel lungo periodo, pensate davvero che allontanare l’ “accattone” rimuova il suo bisogno (ossia la vera fonte di ogni problematica)? Anche se ci riusciste, lui, l’ “accattone”, andrà altrove e questa spirale non si spezzerà mai. Piuttosto, avete pensato cosa accadrebbe se si riscattasse? Posto che non tutti i bisognosi sono condannati alla criminalità, sicuramente avremmo un potenziale delinquente in meno e, magari, addirittura avremmo un contribuente in più, una partita iva in più. Insomma, più ricchezza per tutti. Il che, per il semplice fatto di aver valorizzato il diritto alla ricerca di una dimensione propria, in cui provare a essere autonomi e felici, allargandolo a una persona in più, a una famiglia in più.

Detto questo, ciò non significa che domani le cose cambieranno per il solo fatto di aver eventualmente mutato prospettiva dentro di noi. Il fastidio di fronte alle richieste petulanti la maggior parte di noi continuerà a sperimentarlo. Lo stesso dicasi per le delusioni che inevitabilmente nasceranno in considerazione del fatto che non sempre si riuscirà a riscattare tutti. Però, una volta sgombrato il campo dalle false soluzioni (che rischiano solo di farci perdere del tempo prezioso), potremo comunque dire di aver innescato un cambiamento positivo se arriveremo a comprendere, infine, che l’investimento più intelligente è quello sulla solidarietà. Una solidarietà intelligente, che non si risolva in sterile carità, è un investimento sulla persona aiutata e, al contempo, sul bene di noi tutti.

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