25 aprile, la storia nelle storie di partigiani viterbesi

25 aprile, la storia nelle storie di partigiani viterbesi

Storie - La festa della Liberazione è tosta da spiegare. Un parto della storia dell'Italia che ha generato quello che c'è oggi. Abbiamo pensato di fissare l'attenzione sul senso di questo giorno semplicemente raccontando dei frammenti.

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25 aprile, giorno denso di riflessioni e idee. Giorno della festa per la liberazione dell’Italia da una pagina di storia difficile da digerire, pesante come il piombo. Abbiamo deciso di fissare l’attenzione su questa ricorrenza rispolverando sei partigiani viterbesi, protagonisti con i loro racconti di ‘Morale della favola. Raccontare la resistenza oggi’. Si tratta di un libro figlio di un progetto realizzato nel 2009 dall’Arci di Viterbo. Ricordare questi sei partigiani viterbesi e le mille schegge di storia e di storie che li hanno attraversati è per noi occasione per stimolare a una riflessione su che tipo di festa sia quella di oggi.

 

E’ la festa di Biagio Gionfra, che per salvarsi dalla sicura fucilazione attraversò il Monte Rosa per giorni. Con i nazifascisti alle calcagna e il fardello leggero della sua adolescenza a spingerlo verso la libertà. Una libertà fatta di montagne, baite nei giorni di fortuna e rifugi per le vacche in quelli più lontani da Dio. Spie, agguati nazifascisti e storie di cadaveri, partigiani impiccati da chi voleva tentare di arrestare il nuovo mondo che cercava di venire alla luce. Un fucile stern e il povero Elia Arnoldi, dieci anni di guerra per morire all’ultimo momento, prima della fine di tutto quell’inferno umano, fanno parte di questa storia. “Tra quelle montagne se non ci fossero stati i contadini e le donne saremmo morti di fame tra quei monti, o avremmo resistito soltanto un mese”, racconta. Storia di tranelli, come l’eccidio di Vignanello. “Un fascista del paese si affacciò dalla finestra del Comune, dicendo che gli Alleati stavano muovendo dal vicino paese di Corchiano. Gli antifascisti uccisero un soldato tedesco, lasciandone il cadavere in mezzo alla strada. In realtà la notizia dell’arrivo alleato era falsa e i tedeschi, per rappresaglia, uccisero 42 civili innocenti”, racconta Gionfra.

 

E’ la festa di Giacomo Zolla, Giacomo come Giacomo Matteotti. Nella sua Soriano, correva l’anno 1938, il barista del paese aveva dovuto cedere la licenza perché ebreo. A subentrargli nel mestiere era stato un “ariano”. I giornali di stampa clandestina gli sono rimasti nei ricordi, così come quel settembre del 1943 quando venne pigiato dai tedeschi in un vagone. Molti suoi compagni di viaggio si gettarono dal treno in corsa e decise di fare lo stesso. Tornò a Soriano e si mise a stampare, con una vecchia linotype, fogli clandestini. Una notte del ’44 si svegliò all’improvviso, così come molti a Soriano. A rompergli il sonno i bombardamenti che stavano devastando Viterbo.

 

E’ la festa di Renato Busich, che dopo l’8 settembre del 1943 fece la staffetta per portare informazioni alla banda partigiana Fernando Biferali, che operava nei Monti Cimini.

 

È anche la festa di Nello Marignoli, imbarcato sul dragamine Rovigno. I suoi occhi videro il tricolore ammainarsi e alzarsi sul ponte della nave italiana la bandiera con la croce uncinata. Questo significò per lui il dramma della deportazione, il campo di concentramento vicino Mostar e il lavoro da “vulcanizer” (gommista) all’interno. Per lui un destino da radiotelegrafista con la resistenza Jugoslava, dopo una fuga rocambolesca dal campo tedesco. Soldati italiani col cranio fracassato dai nazisti e un ritorno in Italia, con la stella rossa di Tito sul berretto. Tornato a Viterbo trovò il suo quartiere raso al suolo e la sua casa ridotta a un montino di macerie. Con sé la medaglia da partigiano che lo stesso Tito gli conferì e una foto con suo fratello slavo Gojko.

 

E’ la festa di Ugo Rapiti. “Topo di bosco”, questo il suo nome da partigiano. La sorte lo mandò a fare la guardia a delle SS fatti prigionieri: “Almeno il 50% stavano a piangere dalla mattina alla sera. Uno una volta mi disse: “Piangiamo perché quello che abbiamo fatto non lo dobbiamo fare, abbiamo la coscienza sporca, abbiamo commesso cose veramente che non ci si crede. Ammazzato figli, madri, padri, gente innocente; adesso ce ne accorgiamo purtroppo. Se veniva il comandante e mi diceva di fare fuori uno, se io non obbedivo lui mi faceva fuori”, racconta.

 

E’ la festa di Bruno Selvaggini, viterbese classe 1919. Una storia di conte e di voglia di fare i conti con la storia. Stava nella Polizia: “Ero allo stremo, decisi un giorno che avrei aspettato Mussolini uscire dalla porta di Villa Torlonia e gli avrei sparato con la pistola, doveva finire tutto. Invece Mussolini uscì da un altro ingresso, era stato chiamato dal re, ma questo è inutile raccontarlo, sta nei libri di storia”, racconta.

 

E’ la storia di Aldo Laterza. Sulla sua bicicletta corsero armi destinate ai partigiani del professor Mariano Buratti.

 

 

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